CURA DEL CANCRO. NON TUTTI I SUPEREROI PORTANO CALZAMAGLIA E MANTELLO. Virgilio Sacchini si racconta e ci parla delle ultime scoperte in merito alla ricerca.

 CURA DEL CANCRO. NON TUTTI I SUPEREROI PORTANO CALZAMAGLIA E MANTELLO. Virgilio Sacchini si racconta e ci parla delle ultime scoperte in merito alla ricerca.

Virgilio Sacchini

Non tutti i supereroi portano calzamaglia e mantello. Ve lo assicuro. Ne ho avuto le prove un pomeriggio di Settembre, quando Virgilio Sacchini si è seduto davanti alla telecamera e insieme ai proprietari della rivista, Stefano e Giuseppe, che hanno voluto dibattere in prima persona sulle tematiche delicate che gravitano intorno ad un personaggio di questo calibro, abbiamo parlato del suo lavoro per una buona ora. Era vestito di bianco, probabilmente come il camice che si era appena tolto dopo una giornata di lavoro passata tra le corsie dello IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

Me lo sono immaginata così, come gli eroi, sempre in prima linea. Solo che lui ha a che fare ogni giorno con una linea particolare, quella sottile quanto incerta che separa vita e morte.

E fin qui niente di strano, è un medico, penserai tu. E invece no, perché a fare di Sacchini un eroe non è la sua carriera, non è “cosa fa”, ma la sua immensa persona. Un uomo dall’animo puro, di quell’umiltà e disponibilità che disarmano e creano empatia nello stesso momento. Ecco il Virgilio Sacchini che abbiamo avuto l’onore di conoscere ed intervistare.

Rompiamo il ghiaccio con una domanda d’obbligo vista la natura del nostro Magazine.

Ha qualche legame con il nostro territorio?

<<Certo, innanzitutto sono presidente del Comitato Etico di Ricerca e Sperimentazione di San Marino e in questo senso ho molti contatti con il vostro territorio, considerato che proprio a San Marino lavorano molti medici romagnoli. Inoltre sono un amico personale del dott. Ravaioli, oncologo all’ospedale di Rimini, con cui ho collaborato per anni e per il quale nutro grande stima. L’ospedale di Rimini è senza dubbio un’ottima struttura e un’eccellenza sanitaria in Italia, che per altro vanta un buon livello anche sul piano della ricerca. Devo dire a tal proposito che sono molto affascinato da quello che vedo in Romagna: ci ho trovato un po’ di quella mentalità americana per cui è sempre importante investire sul futuro. Ecco, nella zona della Romagna molte scelte di questo tipo hanno premiato. Mi auguro che le istituzioni non si dimentichino di ciò in futuro…>>

Sappiamo che ha da poco lasciato il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e che ricoprirà presto la carica di Direttore del programma di Senologia presso lo IEO di Milano. Che cosa si aspetta lei da questo nuovo ruolo?

Dobbiamo ritenere definitivamente chiuso il rapporto con il Memorial, o ci potrà essere in qualche modo una collaborazione tra i due istituti?

<<E’ da poco stata formalizzata la mia posizione come professore ordinario di Chirurgia presso l’Università di Milano, e spero che questo mi permetterà di “importare” in Italia tutta l’esperienza che ho avuto presso le cattedre americane. La ragione per cui ho accettato di ritornare in Italia è proprio per cercare di creare un ponte tra i due istituti. Insomma, rimarrò parte del Memorial ma ambisco ad una comunicazione fruttuosa tra Italia e America.

C’è un discorso di fondo che va fatto: sono convinto del fatto che l’Università medica italiana sia eccellente perché fornisce ai giovani un solido background teorico e nozionistico (a mio avviso fondamentale) come in nessun altro paese. Questo fa dei medici italiani i più ambiti all’estero, e non a caso molti riescono anche a ricoprire posizioni importanti. Siamo riconosciuti per gestire meglio l’imprevisto, la complicazione, ciò che è al di fuori dalla procedura, laddove altri commettono errori. D’altro canto, dalle università americane escono giovani medici con solide basi pratiche e “di procedura”, che a noi un po’ mancano. Ecco, vorrei arricchire l’Università italiana di quella praticità e proceduralità medica in cui abbiamo qualche lacuna..>>

Qual è secondo lei la differenza sostanziale tra il modo di fare ricerca negli Stati Uniti rispetto all’Italia? C’è un equilibrio a livello di attrezzature, fondi, partecipazione della comunità e delle istituzioni?

<<Dico sempre che se i ricercatori italiani avessero le disponibilità che hanno i ricercatori americani non ci sarebbe paragone. Il ricercatore americano è considerato tantissimo, può chiedere ed ottenere supporti notevoli alle sue ricerche (cito un bravissimo italo-americano su tutti, Andrea Ventura, emigrato a New York per fare ricerca). I ricercatori che restano in Italia sono degli eroi, fanno delle cose egregie ma il problema è che se ne vanno. Per questa ragione abbiamo creato l’American-Italian Cancer Fundation, un’associazione che accoglie i ricercatori italiani per periodi di 1 o 2 anni e li mettono in condizione di operare presso importanti istituzioni americane. Il progetto mi ha dato una soddisfazione enorme perché apre molte possibilità a chi si vuole dedicare alla ricerca, e non riesce a farlo in Italia.>>

Abbiamo letto molti articoli su di lei che ritenevano il suo, il “rientro di cervelli più importante degli ultimi anni”. Una decisione questa che sembra in controtendenza rispetto all’immaginario collettivo, soprattutto dei più giovani che invece tendono a spingersi sempre di più all’estero, in cerca di condizioni migliori. Che consiglio si sente di dare a questo proposito ai ricercatori?

<<A quelli che mi chiedono dove fare formazione rispondo sempre: fate l’Università in Italia e affiancate a questa una super-specializzazione all’estero. Credo che in ogni caso un’esperienza fuori dall’Italia sia utile perché insegna a ragionare secondo una logica diversa e con più strategia. La pianificazione del lavoro americana ad esempio è ottima ed è quello che noi italiani dovremmo imparare da loro. La condizione ideale sarebbe che il ricercatore italiano cogliesse quello di positivo che c’è dal punto di vista organizzativo e strategico, e poi lo riportasse in Italia, un po’ come sto cercando di fare in questo momento. Tuttavia non nascondo che non è facile ri-adattarsi all’ambiente italiano. Purtroppo qui tendiamo ancora a navigare a vista su molte cose; molto – troppo – spesso mancano strategia, visione di lungo periodo e pianificazione dell’attività. >>

 

E’ stato definito l’erede di Umberto Veronesi, dal quale riceverà idealmente il testimone presso lo IEO. Come si sta attivando lo IEO di oggi per crescere e continuare a progredire nella ricerca?

<<Al momento la situazione in Italia è abbastanza critica, gli ospedali pubblici stanno vivendo una fase di riduzione del budget importante e a volte questo non è compatibile con il progresso. La prima cosa che voglio fare qui a Milano è garantire un determinatogold-standard, ossia un controllo di qualità che assicuri ai pazienti malati di tumore un alto livello qualitativo di trattamento. Gli ospedali americani hanno in media un tasso di errore molto basso, proprio perché hanno attuato questo meccanismo di controllo di qualità. Ecco, è esattamente ciò che pretendo venga introdotto anche in Italia. Inoltre mi sto battendo per introdurre alcuni protocolli innovativi di trattamento che ho importato direttamente dal Memorial. Da ultimo, voglio attuare alcuni progetti di ricerca comune: stiamo partendo con un progetto molto importante che riguarda l’immunoterapia, in collaborazione con New York.>>

Ci può dire qualcosa in più in merito alle ultime scoperte e in merito alle ultime sperimentazioni riguardanti la cura del cancro? Qual è la tecnica, se ce n’è una in particolare in avanzato stato di sviluppo, su cui si stanno concentrando in questo momento le energie e le risorse dello IEO e del Memorial?

<<Si, si sta lavorando su biopsia liquida: riusciamo a trovare DNA tumorale nel sangue; il tumore appena nasce e cresce, libera DNA e siamo in grado, con sonde particolari aspirando, a identificare questo DNA, perchè il DNA tumorale è diverso dalla cellula normale, ha delle cosiddette mutazioni e sappiamo già quali sono queste mutazioni e riusciamo a fare una diagnosi con un banale prelievo del sangue; questo è quello che ci auspichiamo e che stiamo già facendo e verificando.

La cura del tumore… noi facciamo le cure, se la cura non funziona più perchè la cellula tumorale riesce a cambiare il proprio DNA, si trasforma e già sono in corso studi importanti che seguono queste mutazioni, pensiamo di seguire la modifica della cellula; se vediamo che il DNA viene modificato cosicché il farmaco non reagisca più, allora pensiamo di usare un farmaco differente, quindi rincorrere la cellula dando farmaci specifici dipendentemente dalla mutazione della cellula tumorale, ed è un qualcosa sulla quale stiamo investendo tanto perchè potrebbe cambiare il modo con cui curiamo il tumore.

Abbiamo scoperto, parlando invece di ultime novità in campo di ricerca, che frammentando un tumore mettiamo il sistema immunitario in grado di riconoscere le cellule tumorali. Le cellule tumorali son protette ma se le facciamo esplodere si liberano antigeni che vengono riconosciuti dal nostro sistema immunitario, quindi cosa facciamo? nel tumore mammario ma anche in altri tumori, mettiamo una piccola sonda, un ago, nel tumore e refrigeriamo una piccola quantità di tumore, le cellule in questo caso si rompono e nel momento in cui si rompono diamo un farmaco immunologico per stimolare la massima difesa immunitaria; questo è uno dei prossimi protocolli del Royal Memorial Sloan Kattering che faremo a Milano, quindi vogliamo che sia l’organismo che combatta il tumore e per questo dobbiamo metterlo in condizione che lo combatta; sarebbe certamente il modo più naturale per combattere il tumore. Ecco questa è una delle strade aperte e che ha molto interesse in questo momento.>>

Leggendo alcuni recenti sondaggi, ma anche più in generale, seguendo l’informazione medica su alcuni portali di settore c’è un dibattito aperto sull’utilizzo della chemioterapia, ecco si può affermare che la chemioterapia sia una tecnica trapassata o addirittura deleteria?

<<E’ un argomento molto attuale questo, direi che dipende molto. Ci sono tumori sensibili alla chemio che è un mezzo di cura importante, altri che non rispondono invece a questa cura. Demonizzare la chemio non è corretto, è stata demonizzata molto anche in base a uno studio comparso recentemente sulla prestigiosa rivista Lancet Oncology che faceva vedere una tossicità esagerata della chemio. Questo studio è stato molto criticato perchè in Inghilterra la chemio non viene fatta in ambienti adeguati come in Italia. A Rimini avete un reparto di chemio che è uno dei migliori di Italia, in cui gli effetti collaterali, la mortalità è minima. Come tutto in medicina, se non c’è uno standard adeguato i rischi di complicanze talvolta anche mortali sono alti. Però quello che vogliamo è che i trattamenti siano mirati, la chemio se sappiamo che funziona e abbiamo risultati la usiamo perchè la cosa peggiore è fare un trattamento tossico e non avere risultati. Dobbiamo iniziare a usare terapie Target e sappiamo dove andare a distruggere in modo selettivo la cellula tumorale risparmiando le cellule sane. Anche la radioterapia è sempre più mirata con preservazione di organi limitrofi sani. Il segreto è la medicina di precisione, personalizzata al tumore e all’individuo. >>

Ci spieghi meglio questo concetto della terapia Target

<<Vuol dire che nella cellula tumorale noi identifichiamo un passaggio metabolico che possiamo bloccare, passaggio metabolico vuol dire: DNA produce una proteina, la proteina viene modificata da un’altra sostanza che si chiama enzima, l’enzima modifica la proteina e la proteina diventa una proteina importante, strutturale. Sappiamo che ci sono delle proteine che fanno crescere le cellule tumorali, quindi noi sappiamo identificare la proteina cattiva e quindi la blocchiamo, questa proteina non è nella cellula normale, quindi Target vuol dire che è proprio specifica per un processo metabolico che ha solo la cellula tumorale.

E farmaci Target ce ne sono già parecchi e paradossalmente hanno molto meno effetti collaterali perchè non danneggiano le cellule normali, quindi si andrà sempre di più su una cura target perché più efficace e meno dannosa.>>

Entrando invece più nel merito del tumore al seno… Dire che si può fare prevenzione con l’alimentazione è corretto? Quali sono i primissimi sintomi che dovrebbero far scattare un campanello d’allarme nella donna?

<<Per ciò che riguarda il tumore al seno, la prevenzione negli ultimi tempi va sempre di più verso una direzione, quella della medicina specializzata. Stiamo superando i “vecchi” protocolli di terapia, e le linee guida canoniche (studiate su una popolazione generale) sono sempre meno seguite. Direi che il primo passo da compiere è uno screening personalizzato di valutazione genetica, attraverso il quale è possibile capire se la paziente ha una ereditarietà per il tumore. (in Italia circa il 10% dei tumori sono genetici). Sopra i 40 anni poi, come è noto, la prevenzione diventa ancora più importante.

Sulla dieta ci sono pareri contrastanti: sicuramente è molto importante tra i 5 e i 15 anni di età. E’ stato dimostrato che i ragazzi che consumano molta frutta e verdura hanno un rischio inferiore del 40% di contrarre la malattia da adulti, ma in generale una dieta equilibrata con un po’ di tutto premia. A livello pratico, i campanelli d’allarme più comuni sono quelli che conosciamo tutti: dal nodulo al seno, alla piccola secrezione ematica dal capezzolo. Indipendentemente dai sintomi però, ogni donna deve farsi controllare con regolarità, è sufficiente svolgere una mammografia all’anno.>>

E’ inevitabile che una donna che vince la malattia ne rimanga comunque segnata dal punto di vista psicologico.  Esiste un percorso di sostegno psicologico da prendere in considerazione con dei professionisti nel post intervento o comunque dopo le cure che hanno portato alla guarigione?

<<Questo è il problema dei cosiddetti survivors, i pazienti che guariscono dalla malattia, (che sono un numero in costante aumento). Per capire quanto i trattamenti impattino sulla quotidianità dei pazienti effettuiamo dei test di qualità della vita, che ci permettono dal nostro punto di vista di correggere e migliorare progressivamente le cure. C’è da dire che la chirurgia ricostruttiva è in grado di eseguire interventi sempre meno demolitivi, salvando il seno in modo eccellente. Anche la chemioterapia sta migliorando: resta pur sempre un intervento aggressivo, ma quantomeno provoca sempre meno danni permanenti. Tempo fa si cercava di portare a casa la pelle ad ogni costo, ora invece cerchiamo sempre di più di fare il massimo senza impattare irrimediabilmente sulla vita del paziente.>>

Ha avuto dei personaggi illustri tra i suoi pazienti?

<<Certamente, ne cito una su tutti: Oriana Fallaci. Ma alla fine, personalità famose o meno, credo che i pazienti non cambino. Ogni persona è importante per il proprio medico. Diciamo che la malattia di un paziente “famoso” ha maggior risonanza attraverso i media, e quindi consente una maggior sensibilizzazione pubblica sul tema della malattia (vedi il caso di Angelina Jolie).>>

Dal suo punto di vista, vi è differenza tra il paziente americano e quello italiano?

<<Il paziente americano è in genere molto informato, arriva da me dopo aver consultato più medici, o dopo aver guardato tutto il possibile su internet. Qualche volta questa è una situazione complessa perché il paziente non sa veramente che cosa vuole, per cui è necessario attuare un processo di “rieducazione” della persona sulla malattia. Il paziente italiano al contrario è più diretto, arriva in studio e mette la sua salute nelle tue mani. C’è un atteggiamento culturale diverso ecco, ma alla fine il segreto sta nell’instaurare un rapporto umano e nel far capire a chi hai davanti che stai cercando di fare tutto il possibilei: la fiducia in questo caso è tutto.>>

Nell’arco della sua carriera avrà sicuramente avuto a che fare con centinaia di pazienti. A livello umano, che tipo di rapporto è riuscito ad instaurare con questi? C’è qualcuno che le ha lasciato nello specifico un bel ricordo?

<<Certamente, quando si dice che un medico per operare bene debba crearsi una corazza non è vero: personalmente, come tanti miei colleghi, non ho dormito tante notti per alcune mie pazienti. Credo che una persona malata debba trovare nel proprio medico un alleato. Nel mio libro “Dai sempre speranza” (ed. Feltrinelli) ho raccolto molte storie dei miei pazienti e ricordo ognuno di essi per quello che loro hanno insegnato a me.

Ogni volta che un medico comunica una diagnosi è fondamentale che si metta nei panni dei propri pazienti e che dedichi loro tutto il tempo necessario, cercando di tranquillizzare comunicando la nostra esperienza. Il paziente deve essere fiducioso e sapere che quello che stiamo facendo è il massimo delle nostre possibilità.>>

Grazie Dottore del tempo che ci ha concesso, siamo onorati di averla potuta intervistare.

<<E’ stato un piacere. Vi ringrazio per le vostre domande, erano stupende. Avete proprio colto il punto, i problemi più importanti in questo momento. Se andate a mangiare questa sera da Fino che è il mio preferito, ristorante di Riccione, vi invidio molto.>>

Alice Zambon

Altri post