I cantautori (r)esistono ancora. Luca Dolci e le sue gocce di splendore

«Gloria cosa fai stasera? Perché ci sarebbe un ragazzo che suona al Milleluci e sembra interessan- te! Ci andiamo?» me lo chiede Rossella in un nebbioso venerdì di novembre. Il venerdì sera ho danze africane e faccio sempre fatica a uscire dopo due ore di salti e percussioni, ma la breve descrizione che leggo nell’evento mi incuriosisce. «Sì Ross, andiamoci. Ci vediamo in Piazza Tre Martiri alle 10»
Dove
Arriviamo in ritardo al Milleluci, superiamo la pesante tenda dell’ingresso e ci infiliamo nel morbido buio. Il piccolo palcoscenico ricopre l’angolo destro del locale ed è già occupato dall’artistista, un ragazzo solo. Barba scura, capelli scuri, occhi scuri: si abbina al resto. Veste il palco in modo gentile e semplice, con lui poche cose: una chitarra, un’armonica.
Mentre cerchiamo un posto, noto con piacevole sorpresa che i tavolini sono tutti occupati, alcuni dei quali da facce amiche che sono un certificato di qualità. Scegliamo due sgabelli di quelli alti lungo la parete che guarda il palco, sono gli unici posti liberi.
Ci mettiamo comode, ordiniamo un bicchiere di vino, e nel frattempo la prima canzone finisce. Io e Rossella facciamo sbattere i nostri calici in un timido cin cin mentre aspettiamo che parta il secondo pezzo. E invece non succede.
«Alzi la mano chi pensa di essere libero…»
E poi un giorno, mentre ti trovi ad attraversare un mare buio pieno di domande con una barchetta che fa acqua da tutte le parti, mentre cerchi di arrivare dall’altra parte, dove sai che c’è la terra ferma anche se vedi solo acqua e acqua e acqua e nero e vento e notte, arrivano delle parole che ti fanno capire che la direzione è quella giusta. Parole che si fanno vento. Appoggio il mio bicchiere e ascolto incuriosita. Con gentile precisione inizia a parlare, a raccontarci il pezzo che sta per fare, ci dice di cosa parla, di quando lo ha scritto, di cosa pensava e di cosa pensa, ci chiede cosa significhi per noi Libertà, se siamo sicuri di averla. Mentre aggancia la nostra attenzione alle sue parole, penso a come sia bravo a gestire il palco da solo (piccolo, ok, ma non ha importanza, il palcoscenico è un luogo mentale). E poi comincia a cantare.
Il microfono sparisce, i tavolini spariscono, gli spettatori il vino le voci lo sgabello scomodo i bicchieri le luci spariscono. Sparisce tutto. Un’onda d’urto colpisce me e invade il buio. Vacillo. Mi raccolgo da terra, non mi ero accor- ta di essere caduta. Incollo il sedere allo sgabello, il bicchiere di vino alla mano, gli occhi e le orecchie su quello che ho davanti. Vedo Rossella che è attenta quanto me, “A dopo Ross…”, penso prendendo il respiro.
E m’immergo.
Chi
Luca Dolci
«Sto facendo fatica» gli dico sorridendo davanti a un caffé macchiato e sotto alle nuvole di marzo che corrono veloci, «mi sono accorta che nell’articolo parlo più di te che della tua musica, non so se vada bene». La risposta mi arriva qualche giorno dopo leggendo un articolo su La lettura: “Si può raccontare la storia di Isidora Duncan tacendo la sua formidabile morte? No, se si ignora com’è morta non si capisce com’era Isidora Duncan”.
Luca Dolci ha 28 anni e vive a Cesenatico, ma le sue sono delle storie vagabonde e si fermano spesso a Rimini. È un cantautore sì, ma non solo: cantastorie, narratore, ascoltatore attento, selezionatore di parole e di suoni. Incasellarlo è difficile tanto quanto sbagliato. A me piace dire che raccoglie e racconta storie, ma potrei anche inventare un termine: “tiranima”, si può dire? Che come il tira ossi sembra volerti uccidere e invece ti sta solo riportando in vita. Ecco Luca Dolci: un tiranima.
La sua poetica pura rimbalza su corde poco usate, gira privo di applausometro e le sue canzoni hanno la tendenza a toccare il fondo, a raschiarlo, come quando da bambino ti tuffi al mare e gratti la pancia sulla sabbia.
Sono passati più di quattro mesi da quel primo concerto che ha lasciato strascichi lunghi giorni. Ogni volta che si avvicina a Rimini vado ad ascoltarlo, a farmi curare un po’. Dalle belle persone che inizio a riconoscere ai suoi concerti capisco che questo suo effetto è comune, e mentre le saluto con lo sguardo ne ho la conferma. Dopo quella sera ho saltato pochi concerti di Luca che è entrato a far parte di quelle persone che vale la pena condividere se hai la fortuna di incontrare.
Inizia a scrivere testi circa dieci anni fa e a suonare dal vivo nei locali nel 2013. Oggi ha circa un centinaio di pezzi tra le mani, nei cassetti, in testa, e chissà in quanti altri posti. Alcuni di questi sono diventate le canzoni che porta in giro, tanti altri rimangono in attesa.
Nel 2015 apre il concerto di Marta sui tubi al Why Not Festival di Piacenza e nel 2017 arriva tra i sedici finalisti ad uno dei concorsi più prestigiosi della musica d’autore italiana: Musicultura.
Le storie che racconta danno voce a mondi, persone, punti di vista silenziosi. A volte scomode e necessarie.
Un libro che amo dice che “dove si guarda c’è quello che siamo”, chissà se Luca si trova in questa frase.
Come e quando
È sabato mattina, avevano previsto piog- gia e invece il sole è pronto a scaldare Rimini. Io e Luca ci incontriamo in un bar del centro che amo, famoso per andare con calma, e davanti a due cappuccini, a una brioche alla marmellata e a un maxi biscottone al cioccolato, iniziamo a chiacchierare.
«Come hai iniziato?»
«In realtà mi sembra di averlo sempre fatto. A diciannove, vent’anni io e i miei amici ci sedevamo sulle panchine del porto con una chitarra, pronti a chiacchierate lunghe tutta la notte. Ridevamo, discutevamo, parlavamo, e tra una cosa e l’altra facevo sentire quello che avevo scritto, non tanto alla ricerca di approvazione, piuttosto per un bisogno viscerale. Quando finivo ricominciavamo il discorso, ci confrontavamo sull’argomento della canzone, sulle parole scelte, qualcuno era d’accordo, qualcun altro non lo era. Una cosa normalissima, quello che fanno gli amici», “così come sono le tue esibizioni” penso e non dico: intime, informali, spontanee. Sembra di essere tra i suoi amici al porto. L’arte che crea legami.
Anche Luca è così, spontaneo come quando si esibisce, gentile come alla fine dei suoi concerti e curioso come le sue canzoni. Parla parecchio, ascoltarlo è bello. Mi racconta di alcune sue canzoni che ormai mi sono familiari: Liberi, Sarajevo, Mercury (e di quando ha cantato per lui), Vetro, Occidente, Spiga di grano. Ci scambiamo i nostri diversi punti di vista su Starnuti. Io gli racconto i suoi concerti da un’angolazione che non è la sua, quella sotto il palco. Nominiamo diverse volte Glen Hansard (che scopro grazie a lui e che consiglio) e un sacco di nomi che non ricordo perchè la mia cultura musicale è ridicola di fronte alla sua, e chi è attorno a noi sente spesso il nome di De André.
Lo ascolto e penso che l’arte dovrebbe essere proprio questo: un’urgenza, un bisogno, un urlo.
Luca è tutt’altro che un facilone in cerca di battimani, il suo silenzio interiore mi incuriosisce e mi affascina. Antidolorifico analgesico ansiolitico, sentirsi capiti è una delle sensazioni più rassicuranti al mondo. Nemmeno questo dico.
Avrei tante domande segnate nel mio quadernino senza righe chiuso nello zaino, ma lascio la conversazione libera di andare dove vuole, e mentre il bar che va piano si riempie e si svuota, si riempie e si svuota e il sottofondo musicale cambia, le parole continuano a scorrere. Mi racconta tante cose, così tante che se provassi a scriverle tutte Stefano della redazione mi metterebbe in punizione per il resto delle uscite di Riminiamo, così tante che non ci ac- corgiamo dell’ora, e quando alla fine la guardiamo saltiamo in piedi come molle, pronti a salutarci.
È così raro dimenticare telefoni, orologi e tempo che quando capita è una fortuna.
Perché
Perché abbiamo bisogno di gentilezza, e abbiamo bisogno di empatia, e di intimità, e di tenerezza, di vicinanza, di silenzio o di rumori scelti bene. Perché non ci siamo più abituati e questo mi fa incazzare. Ci dovremmo tutti incazzare, e allo stesso tempo dovremmo cercare chi ancora usa la vicinanza, i sorrisi gentili, le parole, le emozioni, gli abbracci. Questo è umanità, questo è essere umani, questi sono i concerti di Luca: le emozioni messe a nudo, i saluti gentili, le parole scelte con cura, il tempo dedicato. Perché il desiderio di comunicare è forte tanto quanto l’urgenza di condividere.
Essere umano.
Perché abbiamo limitato il nostro orizzonte alla punta del dito indice, che clicca, condivide, giudica, condan- na ma ci rende degli incapaci: incapaci all’ascolto, incapaci all’impegno, incapaci all’attenzione. Se pensate di potervi fare un’idea di Luca dalla manciata di brani presenti su Youtube, lasciate stare. Vogliate piuttosto superarlo quel dito: la pazienza di lasciar finire una canzone. Andate a conoscerlo: l’orizzonte che va oltre la punta dell’indice.
Essere umano.
Cerco disperatamente chi ancora ha questo dono e mi circondo di persone che ci credono.
Essere umano.
E spero in qualcosa di contagioso come l’influenza invernale e in qual- cosa di piacevole come la sveglia tardi la domenica mattina.
Ringrazio Luca, ringrazio la musica, ringrazio l’arte, ringrazio Rossella.
E poi ringrazio gli shock neccessari all’evoluzione.