Le realtà da sempre esistite le cure palliative e l’affermazione del valore della vita.

 Le realtà da sempre esistite le cure palliative  e l’affermazione del valore  della vita.

Nel nostro Paese non vi è solo la realtà del Covid-19, ma di tante altre persone che lottano tutti i giorni, anche da anni, con la vita. Questo lo sa bene il personale sanitario dell’Unità di Terapia Antalgica e Cure Palliative dell’ospedale di Rimini, che ogni giorno si prende cura dei loro pazienti non fornendo solo assistenza medica, ma anche psicologica.

Una realtà amara e dolce al contempo, perché se da una parte ai pazienti viene fornita assistenza medica e si cerca il più possibile di farli sentire a casa, non solo con l’affetto del personale ma anche con l’ambiente che li circonda, dall’altra bisogna fare i conti con oggettività dure e difficili da accettare.

Per portare alla luce questo aspetto di cui non tutti sono a conoscenza abbiamo fatto alcune domande a Simona Semprini, coordinatrice infermieristica del reparto che ci tiene a precisare “siamo una bella squadra e parlo a nome di tutti, specialmente riguardo all’amore e alla passione che mettiamo nel nostro lavoro”.

Ciao Simona ci potresti spiegare in cosa consiste il lavoro nel vostro reparto e il ruolo che ricopri? 

<<Mi chiamo Simona Semprini e sono la coordinatrice infermieristica dell’Unità di Terapia Antalgica e Cure Palliative dell’ospedale di Rimini.
Il nostro reparto nasce nel 2000, quando alla realtà dell’hospice viene integrata la terapia del dolore, fondamentale nella gestione dei malati terminali.
Le cure palliative sono quell’insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita sia del malato in fase terminale che della sua famiglia. Nel nostro reparto mettiamo in atto interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e globale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici. 

La nostra mission è quella di dare più qualità possibile alla vita residua, privilegiando la qualità rispetto alla quantità e cercando di riservare al paziente una vita dignitosa, senza dolore e circondata dagli affetti più cari. Molti pensano che l’hospice sia un posto in cui si viene a morire, ma non è così. Il nostro intento è quello migliorare le condizioni di vita del paziente e se queste risultano compatibili con un rientro al domicilio cerchiamo di agevolarlo in ogni modo. >>

Quanto è importante non offrire solamente assistenza medica ma anche psicologica ai pazienti? 

<<In fase terminale di malattia, l’assistenza psicologica va di pari passo con quella medica, trascurarla sarebbe drammatico. Affrontare l’idea della propria morte o di quella di un congiunto è una esperienza devastante alla quale non si è mai adeguatamente preparati.

Ascolto empatico, vicinanza al malato e alla famiglia sono la nostra priorità e anche se all’interno dell’hospice è previsto uno psicologo presente più giorni a settimana che rappresenta una figura importante nella gestione delle problematiche dell’ospite e dei familiari, devo dire che tutto il personale, medico, infermieristico e Oss che lavora qui, ha una particolare predisposizione ad accogliere con grande cura e sensibilità questo dolore globale che accompagna il fine vita.>>

Le “cure palliative” sono cure attive e totali ed è quindi molto importante non assistere solo il paziente, ma anche i familiari. Quali delle due categorie è più restia all’accettazione della realtà? 

<< La malattia oncologica è un problema che investe l’intero nucleo familiare, scuote le fondamenta stesse che lo reggono, è uno tsunami che arriva inaspettato e devastante, ribaltando convinzioni, ruoli e priorità. Il modo in cui si reagisce ad una diagnosi oncologica ed in particolar modo ad una prognosi infausta è molto vario, sia per il paziente che per i familiari. Nel malato si può assistere a reazioni come negazione, rabbia, contrattazione, depressione/isolamento. C’è chi minimizza, razionalizza o semplicemente non vuole pensarci… ci sono interi trattati di psico-oncologia ai quali non mi voglio sostituire.

Di certo ogni persona è a sé e affronta il pensiero della propria morte in maniera unica, partendo dalla propria personalità di base, dalla rete sociale che lo circonda, dal tipo di malattia che lo affligge e dai sintomi che lo accompagnano. Molto dipende anche da chi incontrano nel loro percorso di malattia. Perché la modalità di approccio, la comunicazione ed il tipo di relazione che ne deriverà con chi si prende cura del paziente oncologico, avranno molto peso sul modo di affrontare le diverse fasi della malattia. 

In fase terminale in particolar modo emerge il bisogno di poter esprimere la propria paura della morte e sentire nell’altro la capacità di accoglierla, gestirla, provando a restituirla più digeribile può essere davvero terapeutico.

Anche con i familiari ci possiamo trovare di fronte a emozioni contrastanti quando prendono coscienza di una prognosi infausta, sentimenti che vanno dall’incredulità, alla rabbia, alla disperazione per poi arrivare all’accettazione…  Difficile dire chi è più restio a questo ultimo sentimento. 

L’età fa molto la differenza …>>

Ogni giorno vedete realtà molto dure che immagino vi possano segnare in modo molto profondo. Come affronti il dolore emotivo e l’empatia che è inevitabile in queste situazioni? 

<<La maggior parte dei nostri ospiti passa con noi diverso tempo, impossibile non affezionarsi. Conosciamo le loro storie, il loro passato, i loro gusti, le paure, i sogni… viviamo con loro ed i loro congiunti un periodo della loro vita molto particolare, li ascoltiamo, li consoliamo e spesso piangiamo con loro. La loro perdita poi diviene un piccolo lutto da elaborare, ma sapere che abbiamo condiviso con loro un momento così doloroso in cui molti invece si fanno da parte, e pensare di poter essere  stati di aiuto,  allevia la sofferenza e ci fa andare avanti. Ognuno di loro ci lascia qualcosa di così personale da divenire prezioso: un’emozione, un ricordo del passato, un progetto incompiuto, un sorriso, un grazie…

L’hospice è una grande scuola di vita che insegna a dare importanza a ciò che davvero lo è: il tempo, che non va sprecato, perché non sai mai quanto te ne rimane, e l’amore, che è l’unica cosa che hai la possibilità di lasciare e l’unica che porti con te alla fine di tutto. 

Qual è il vostro approccio con il paziente e l’aiuto della presa in atto della realtà in cui si trova?

 <<La presa in carico del paziente e della famiglia è globale, quindi non siamo interessati solo a curare la malattia ma alla persona in toto, con le sue fragilità, i suoi bisogni, che non sono esclusivamente di tipo medico e assistenziale. Questo si traduce in una grande attenzione, soprattutto in questa fase del processo di malattia, ai bisogni emotivi del paziente, che possono essere molto diversi l’uno dall’altro proprio perché diversa è la personalità di ognuno.

C’è chi ha bisogno di sapere e chi preferisce ignorare, chi ha bisogno di parlare e chi si chiude in se stesso, chi ha bisogno di sperare e lottare fino alla fine e chi si lascia andare al suo destino in modo passivo. Noi cerchiamo sempre di rispettare la volontà percepita o dichiarata del paziente e dei familiari, accogliendo senza giudizio.>>

Ogni individuo vive determinate situazioni in modo individuale ma purtroppo influiscono molto anche le situazioni e i contesti sociali in cui viviamo. Come affrontano i pazienti la realtà del Covid-19 e quanto influisce la limitazione o la totale assenza nel vedere i propri famigliari? 

<< In accordo con la direzione, la scelta fortemente voluta dal nostro Primario e sostenuta da tutti noi è stata quella di consentire la vicinanza dei familiari anche in questo periodo particolarmente delicato. Essendo il nostro reparto dotato di camere singole con il letto anche per il familiare, seppur con grandi limitazioni abbiamo deciso, al fine di non allontanarci troppo dalla nostra mission, di permettere l’ingresso di 2 familiari al giorno provvisti di tampone negativo, (previo passaggio dal front office per autocertificazione e misurazione della temperatura).

Questo ovviamente non è molto rispetto al passato, dove l’ingresso in hospice era consentito a  familiari, amici e conoscenti, dove si sono celebrati matrimoni, feste e concerti, ma in questo periodo è molto di più di quello che si possono concedere molte altre realtà, in cui l’ingresso è precluso o limitato a pochi minuti al giorno. E anche se per consentire tutto questo ci siamo fatti carico di tanto lavoro in più, per noi è importante che nessuno muoia solo.

I pazienti sono consapevoli della criticità del momento e in linea di massima accettano di buon grado queste limitazioni; per i familiari è più difficile, soprattutto in prossimità dell’aggravamento del proprio caro, durante il quale il bisogno di tutta la famiglia di essergli accanto diventa preponderante. A questo si aggiunge anche la drammaticità di affrontare in solitudine il lutto imminente. Per questo, ora più che mai, la vicinanza ai familiari merita un’attenzione particolare, ed il sostegno del personale diventa preziosissimo.>> 

Il vostro reparto come abbiamo capito ha pazienti clinicamente vulnerabili, quali sono le modalità messe in atto di prevenzione al tempo del Covid-19? 

<<Come dicevo in primis la limitazione degli ingressi, la presenza di un operatore alla porta che in base ad una lista stilata dal medico permette le visite solo alle persone autorizzate (2 per paziente), provviste di tampone negativo e autocertificazione. Gli ingressi vengono registrati su un apposito registro in modo da monitorarli in tempo reale, viene misurata la temperatura e igienizzate le mani. Poi viene chiesto ai familiari e pazienti di mantenere la distanza di sicurezza, la mascherina e di non uscire dalla stanza. Ogni stanza è dotata di gel per le mani e viene sanificata quotidianamente dal personale addetto. Il personale è munito dei dpi necessari e l’azienda fa regolarmente formazione sul tema.>>

Vi è un evento in particolare che ti ha segnato in modo profondo?

<<Il vivere insieme un momento tanto delicato, intimo e di grande sofferenza unisce, lega e ti fa sentire quasi parte della famiglia, noi della loro e loro della nostra come reparto. 

Sono tanti i pazienti che mi porto nel cuore, tutti di certo ti lasciano qualcosa. Qualcuno di loro li ricordo in maniera particolare: Anna, con le nostre chiacchierate sulla vita e sull’amore che prima di andarsene mi ha regalato un libro di poesie scritto da lei; Monica con le nostre pause caffe, cioccolatini e tanta voglia di farcela; Valentina e il suo amore Ciro, che hanno lottato come tigri, contro ogni previsione, per rubare ancora un po’ di tempo alla vita; Angela che ha insegnato a tutti come si vive e come si muore; Antonella che ci ha sperato fino all’ultimo… potrei andare avanti per ore. Mai “sentita” tanta vita come in hospice…>>

Un lavoro, non sempre facile quello del personale sanitario, specialmente in questo reparto dove si lotta ogni giorno per la vita e la morte, perché le persone non diventano più solo pazienti, ma amici, e si condividono momenti di dolore e di sorrisi strappati alla vita.

Si percepisce fin da subito la passione del lavoro svolto e il modo, quando anche la condivisione di un caffè diventa un momento speciale, un qualcosa di indelebile nelle proprie menti, che ci porta a prendere più coscienza della vita, a quelle vite strappate un po’ troppo presto, magari anche in modo ingiusto, ma che lasciano così tanto nei nostri cuori che sembra siano ancora accanto a noi.

Ed è forse questa un po’ la presa di coscienza della vita, anche se breve o lunga, saranno le persone a cui teniamo a ricordarci ogni giorno. E quindi non resta che ringraziare chi ogni giorno soffre accanto a noi e ci infonde coraggio per permetterci di lasciare passi indelebili, seppur brevi nella vita altrui. 

Erisa Xherahi

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