PANDOLFO IV MALATESTI E LA CONGIURA DEGLI ADIMARI


“Pandolfo figliuolo (illegittimo – n.d.r.) di Roberto & d’Isabetta Aldrouandini da Rauéna, nacque in Rimino l’Anno mille quattrocéto settantacinque il dì cinque di Luglio; Fù quanto al corpo di istatura mezana, di carnagione bruna, di fronte, e d’occhi piccioli, e di naso lógo, di capigliatura oscura, e d’aspetto rigido; e quanto all’animo degenerando dal Padre, riteneua molti costumi dell’Auo … [omissis]”.
È così che lo storico riminese Cesare Clementini (1) ci accenna la nascita e le caratteristiche fisiche dell’ultimo signore di Rimini in “Vita di Pandolfo Vltimo” nel volume II del suo “Raccolto Istorico della fondatione di Rimino, e dell’origine, e vite de’ Malatesti.”.
Luigi Tonini (2), altro noto storico riminese, a pagina 430 del volume V della sua “Storia civile e sacra Riminese”, lo descrive “…vendicativo e insiem malaccorto, colle punizioni violente usate contro coloro che egli teneva per rivoltosi e ribelli, ebbe attirato contro di sè, ora che al governo era rimasto solo (3), tutto quell’odio che prima forse si riversava ancora su d’altri.”
Si legge in Treccani – Dizionario Biografi- co degli Italiani – volume 68 (2007): “Il 10 Settembre 1482, a soli sette anni, gli morì il padre (Roberto Malatesta il Magnifico – n.d.r.) lasciandogli in eredità la signoria con tutela alla madre ed al cugino Raimondo. Nel dicembre 1482 Galeotto, fratello di Raimondo e uomo di fiducia di Sisto IV, si fece carico della tutela del M. che, previa dispensa pontificia, era stato affrancato dai natali illegittimi e, quindi, ufficialmente investito, con il fratello Carlo, del vicariato malatestiano. Per consolidare il potere acquisito, il neonato governo eliminò personaggi scomodi, come Alberto Petrucci da Mondaino, Dioniso da Roncofreddo e Giuliano Arnolfi. In tale frangente, la figura del M. è assente dalla scena politica, dominata da cruente lotte intestine. Non estranea a intrighi e macchinazioni fu la madre Elisabetta Aldovrandini [amante di Roberto – n.d.r. – (4)], che giocò un ruolo di primo piano nei foschi episodi dai quali fu travolta la corte malatestiana”.
Quando divenne l’indiscusso signore di Rimini, non seppe godere ed avvalersi della fedeltà dei propri sudditi a causa del suo animo corrotto, sospettoso e crudele anche nei confronti delle famiglie nobili e più in vista che giunsero fino a cospirare nei suoi confronti. Per queste ed altre ragioni fu soprannominato Pandolfaccio.
Le vere motivazioni della congiura descritta nel titolo, come si legge nel “Raccolto istorico della fondatione di Rimino, e dell’origine, e vite de’ Malatesti” di Cesare Clementini ed in Nevio Matteini “Pandolfaccio, ultimo signore di Rimini” hanno però origini nelle faide malatestiane antecedenti il periodo della congiura stessa.
Si legge nel Clementini: “…[omissis] benchè le ruine delli Stati spesso hanno cagioni occulte, più pericolose, che le apparenti atteso che Isabetta [Aldobrandini] da se medesima disposta e da altri sollecitata al risentimento -come altrove si è detto- non molto d’intoppo ritrovò; per concitar l’animo del giovine figlio, a farne vendetta, il qual prima col dar adito a gli omicidi, fu necessitato poi a permettere diversi altri misfatti, e precipitando d’un in altro male, poco dopo si fece egli medesimo lecito l’illecito, et honesto il disonesto, sì che in breve precipitò a redine sciolte ne gli errori, e ne’ vizi de’ principi ingiusti, e de veri tiranni, i quali eccessi di troppo avanzandosi ogni giorno, e non potendo la nobiltà riminese più soffrir così rilassato modo di vivere perchè i vizi altrui sogliono dispiacere non solo a buoni ma a viziosi stessi, mossa perciò da odio, da interesse e da desiderio di liberare la patria da così fiera tirannide col mezzo della vendetta, cominciò a machinarle contra, et i primi furono imaginatamente accetti, intimi et ubligati servitori, ch’erano sempre stati amorevoli al padre et all’avo di lui”.
E Nevio Matteini scrive nel volume sopra citato: “La sera del 6 Marzo 1492 Raimondo Malatesta finì trucidato da Pandolfo e Gaspare, figli di Galeotto, mentre scendeva le scale del palazzo di Elisabetta Aldovrandini, dove s’era fatta una festa in maschera. Gli omicidi erano vestiti da pellegrini. Ma c’è un’altra versione secondo la quale Raimondo sarebbe stato ucciso per ordine di Pandolfo IV. Gli stessi figli di Galeotto, insieme col padre loro, congiurarono per avvelenare o per tagliare a pezzi Pandolfo, Carlo, Elisabetta e Violante. L’eccidio era fissato nella villa di San Salvatore, per il 1° Agosto 1492, ma il giorno prima Pandolfo, informato dalla madre, scoprì la trama e fece uccidere zio e cugini. E subito ne avvisò il duca di Ferrara. [….] Maggiori particolari si apprendono dalla lettera che Bartolomeo Cavalieri (uomo dotto, integro ed esperto, fedelissimo del duca di Ferrara Ercole I che era desideroso di intrometter- si, per ragioni politiche, nella formazionedi Pandolfo e da lui inviato al Malatesti il 14 Agosto 1491 affinchè ricevesse una saggia educazione) indirizzò il 6 Agosto alla duchessa Eleonora di Ferrara. Fra l’altro il documento assicura che anche il piccolo Carlo era fra le vittime designate.”

Sempre nel Treccani a tal proposito è riportato: “Nel marzo 1492, mentre il governo congiunto dei reggenti mostrava segni di cedimento, Raimondo fu ucciso in un complotto ideato da Galeotto che, risoluto a osteggiare l’imminente passaggio di consegne al M., aveva predisposto l’eliminazione dell’intera famiglia del futuro signore di Rimini. La congiura, tuttavia, fu sventata da Elisabetta che poté contare sul sostegno di Francesca Bentivoglio, che giunse a tra- dire il marito Galeotto.
Della vicenda resta documento coevo la pala di Domenico Ghirlandaio (5) e bottega (Museo civico di Rimini), che rappresenta S. Vincenzo FerrerI fra i ss. Sebastiano e Rocco; sotto, in preghiera, Elisabetta Aldobrandini e Violante Bentivoglio da un lato, il M. e Carlo dall’altro. Questi esprimono devozione e riconoscenza ai patroni per un doppio rischio scampato: la congiura del 1492 e la peste del 1493”.
In “Pandolfaccio – fine di una signoria” di Oreste Cavallari, si legge di un altro delitto perpetrato da Pandolfo nel Novembre del 1495 che contribuì notevolmente ad aumentare la cattiva reputazione e l’odio nei suoi confronti. Accadde che Guido Guerra da Bagno (Guido Guerra dei conti Guidi – n.d.r.) signore di Cusercoli e condottiero di Pandolfo, quindi suo ufficiale, “fu fatto decapitare come sospetto di tentarne l’uccisione non si sa bene se per istigazione del suocero (di Pandolfo – n.d.r.), Bentivoglio, non nuovo a simile impresa già sperimentata a Faenza sul genero Manfredi, o forse della stessa Venezia, che l’aveva <<in protezione>>!
Altrove (https://condottieridiventura.it/guido-guerra-da-bagno/) si legge invece che Guido Guerra chiese soccorso a Pandolfo per prendere possesso di Castelnuovo (nel ravennate) acquistato dai Gottifredi. Gli furono inviati 200 cavalli, ma ciò causò la protesta dell’arcivescovo di Ravenna verso i veneziani. Nella contesa intervenne Caterina Sforza che inviò, contro il Guerra, Achille Tiberti e Cicognano da Castrocaro che conquistarono Castelnuovo, Teodorano, Molino Vecchio e Cusercoli. Il Malatesta, per dimostrare alla Serenissima la propria innocenza, dopo averlo convocato lo incarcerò e lo fece strangolare a metà di detto mese (il 13, secondo “Treccani”) ed il cadavere fu esposto alla vista del popolo.
Ma riprendiamo la narrazione di quella che passò alla storia come “La congiura degli Adimari”, i cui aderenti, timorosi di poter prima o poi soccombere, furono gli stessi fedeli servitori di Roberto il Magnifico e di Sigismondo Pandolfo, rispettivamente padre e nonno di Pandolfo IV. Tale rivolta fu ordita con l’intenzione di uccidere Pandolfo, sua moglie, il figlio Carlo e quanti altri intervenuti in loro difesa. Fu architettata a partire dall’Ottobre del 1497 presso l’abitazione di Adimaro Adimari, ubicata dietro il convento della chiesa di S. Giovanni Evangelista (più conosciu- ta come S. Agostino in quanto retta dagli Agostiniani), dopo che Venezia intervenne in seguito ad un grave tumulto popolare prontamente sedato, scoppiato quando Pandolfo IV tentò di rapire la figlia minorenne del condottiero Castruccio Castracane della quale si era invaghito.
Fu posta in atto nel pomeriggio di domenica 20 Gennaio 1498, all’interno della chiesa stessa. I congiurati appartenevano alle famiglie nobili più in vista di Rimini:
– dovevano compiere l’eccidio i Marcheselli (alla guida dell’assalto), gli Adimari con Nicolò, i Cattani con Marsilio, i Clementini con Clementino (avo dello storico Cesare che ha narrato la congiura), i Diotallevi con Giacomo di Giorgio, gli Arnolfi con Carlo e Braccio, i Magnani con Rustico, Antonio, i Della Rosolaria con Paolo, gli Agolanti con Giulio e gli Schiavina con Giacomo; – Adimario Adimari, Giulio Malatesti, Pietro e Matteo Belmonti, Pier Antonio Agolanti, Giovanni e Giuliano Stefani, Ondideo Servidei, Giulio Soriani, Angelo Prosperi e molti altri nomi non specificati nelle carte processuali, restando sparsi nella chiesa, dovevano impedire ogni mossa agli avversari;
– Lodovico e Pietro Belmonte, Lodovico, Nicolò ed altri Marcheselli, con parenti ed amici “in numero di trenta”, avevano il compito di assaltare la rocca sigismondea o far sì che assalissero ed uccidessero Pandolfo e la sua famiglia nel caso in cui fossero riusciti a sottrarsi agli assalitori e tentassero di ripararsi in essa; – Tommaso, Carlo e Galvano Cattani con Giovanni Antonio da Fano assieme ai loro seguaci dovevano provvedere alla sollevazione del popolo.
Come si sapeva, Pandolfo sarebbe dovuto rientrare a Rimini nel primo pomeriggio dal castello di Bellaria ove si dedicava alla caccia ed alla pesca. Si recò quindi, come d’uso, alla chiesa di S. Giovanni Evangelista per assistere alla messa vespertina dal solito posto dominante la chiesa “per vedere ed essere veduto da chi gli tornava in acconcio” (L. Tonini – Storia civile e sacra riminese) o “per vagheggiare i suoi amori” (C. Clementini – Raccolto istorico). E così continua: “Onde cominciato e appostato da’ congiurati il tempo, Marsilio, e compagni, entrati per la porta di dietro del conuento, posta quasi all’incontro della casa de gli Adimari, si condussero alla porticella del Corridoio guardata da Pietro Ranieri, da Virgilio … e da Enzio Mezzouillano, Bolognesi, e da altri stipendiati dal Signore; i quali sentendo lo strepito,

e vedendo gli armati, si ritirarono dentro nel corridore, il che veduto Marsilio, ch’era innanzi agli altri, frettolosamente correndo, giunse alla porticella, tirò un colpo con l’arme d’asta e inuestì Enzio, dapoi raddoppiando con rabbia il secondo, non auuedendosi dello Scaglione incontrò in esso, e cadde in terra per trauerso della porticella, e non potendo egli così in vn subito, per la gravezza dell’arma rizzarsi, nè essere da compagni soccorso, leuatogli l’arma d’asta, e co’ pugnali ferito in maniera, che nel giorno stesso morì. I Bolognesi, e gli stipendiati, fatti arditi colla stessa arma leuata ad Enzio si posero alla difesa della porticella, la quale per essere assai picciola, vn’arma sola bastaua per guardarla e proibir l’entrata”. Avvertito il pericolo, con Giorgio Benci ed altri suoi seguaci, Pandolfo tentò la fuga saltando sull’altare della Madonna. Accortosene, Nicolò Adimari gridò a Giulio Agolanti: “Dagli, dagli che scende all’angolo!” Quest’ultimo tentò ripetutamente di colpire il Malatesti ma, poichè era molto in alto e la spada dell’Agolanti troppo corta, riuscì a ferirlo solo leggermente al calcagno. Pandolfo potè quindi nascondersi nel corridoio e successivamente porsi in salvo con l’aiuto di quella parte del popolo che, amandolo, era intervenuta in suo soccorso. Contemporaneamente scoppiò in chiesa un tutmulto tra gli assalitori ed i seguaci di Pandolfo, terminato con l’uccisione di alcuni di loro. I congiurati si salvarono fuggendo chi a Ravenna, chi a Cesena (Nicolò Adimari, Giulio e Pietro Antonio Agolanti, Nicolò Marcheselli, Bartolomeo Galvani, Giacomo Schiavina, Pietro e Ludovico Belmonti), e chi a Venezia (Malatesta Agolanti, Clementino Clementini, Ludovico Marcheselli e Matteo Belmonti). Una parte di essi si rifugiò imprudentemente in città, ma poco dopo furono scoperti e catturati. Tra di essi vi erano Adimario Adimari, Giovanni Antonio da Fano, Giulio Soriani, Tommaso, Carlo e Galvano Cattani, Paolo della Rosoleria e Giovanni e Giuliano Stefani.

Scampato all’attentato, con la città in preda al terrore, la vendetta di Pandolfo non tardò ad arrivare. I congiurati subirono un processo con l’accusa di “Lesa Maestà” uscendone condannati a morte e, dopo l’impiccagione, i cadaveri contrassegnati dal loro nome, furono appesi per lungo tempo ai merli del castello e le loro case abbattute. Seguirono le confische dei beni “ed ogni altro atto di severa giustizia, dimenticando che se la clemenza in simili casi è la migliore consigliatrice de’ grandi, molto di più lo è per chi è debolissimo siccome era Pandolfo, il quale invece diminuì di generosità a misura della diminuzione del suo potere”. Fu posta anche una taglia di 200 scudi d’oro a chi avesse catturato vivo un colpevole e 100 se morto ed anche garantita l’impunità a chi, pure se implicato nella congiura, avesse consegnato un complice alla giustizia. Anche il filosofo ed astrologo cesenate di nobili natali, Antioco Tiberti subì la stessa sorte, in quanto sospettato da Pandolfo di complicità. Nel 1498, invitato con un inganno dal Malatesti, in quel tempo a Coriano, fu subito incarcerato assieme a sei accompagnatori poi successivamente trasferiti a Rimini ove in un primo momento a lui solo fu risparmiata l’impiccagione. Durante questo periodo di detenzione, Pandolfo gli fece visita per conoscere il proprio futuro. Gli fu detto che avrebbe perso la signoria e che sarebbe morto in grande povertà ed in esilio. Tentò di fuggire, ma catturato, fu decollato ed il suo corpo restò insepolto per circa un anno. Poco tempo dopo la profezia si avverò: fu spodestato da Cesare Borgia e morì a Roma nel 1534 ove fu sepolto in S. Maria in Trastevere.
Note
(1) Cesare Clementini (3 Febbraio 1561 – 1624) figlio del dott. Cav. Niccolò. Di nobile famiglia, ricoprì diverse cariche tra cui Capoconsole.Nel 1592 diventa Cavaliere dell’ordine di Santo Stefano.Si sposa con la contessa Leonida Bernardini della Massa da cui ha tre figli. È il primo storico di Rimini. Il suo “Raccolto istorico della fondatione di Rimino, e dell’origine, e vite de’ Malatesti”.Con vari, e notabili fatti in essa città, e fuori di tempo in tempo successi, distinto in quindici libri di Cesare Clem. ni riminese dell’ord.e e militia di S.to Stefano”, è la prima storia della città, opera ricca di molti documenti alcuni dei quali purtroppo andati perduti, tra cui la più antica mappa di Rimini a noi pervenuta, minuziosamente precisa, opera del pittore riminese Alfonso Arrigoni.
(2) Luigi Tonini (Rimini, 4 Febbraio 1807– 1874). Figlio di Francesco e Lucrezia Pedrizzi. Fu avviato agli studi presso il seminario di Rimini, poi all’università di Bologna dopo avere frequentato fisica e filosofia morale, laureandosi in giurisprudenza. Nel 1834 giunse alla biblioteca gambalunghiana ove si impiegò e divenne coadiutore di Luigi Nardi ed Antonio Bianchi. Nel 1840, alla morte del Bianchi, ne fu nominato bibliotecario reggente. Ne divenne titolare nel 1853. Grande ricercatore di documenti, ne arricchì la biblioteca e, appassionato cultore di storia riminese, ci ha lasciato la “Storia civile e sacra riminese” in cinque volumi di cui gli ultimi due pubblicati postumi. Il sesto volume, a completamento dell’opera, fu scritto e pubblicato dal figlio Carlo (Rimini 21 agosto 1835 -12 Dicembre 1907).
(3) per decesso della madre che di fatto governava la città, il 30 Agosto 1497.
(4) Roberto Malatesta, detto “il Magnifico”. Fano, 1440 – Roma, 10 Settembre 1482 (malaria).
(5) Domenico Bigordi detto Ghirlandaio (Firenze, 2 Giugno 1448 – 11 Gennaio 1494) di Tommaso di Corrado Bigordi e di una Antonia non meglio identificata. Fu tra i protagonisti del Rinascimento ed operò in gran parte nella sua città natale. Apprendista orafo controvoglia nella bottega del padre, fu inviato a bottega dal pittore Alesso Baldovinetti e si formò successivamente alla bottega di Bartolomeo di Stefano, altro orafo (“Ghirlandaio, i segreti di una dynasty”, articolo apparso sul Corriere fiorentino l’8 Aprile 2017), anzichè a quella del Verrocchio, come descritto Treccani nel Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 10 (1968). Benozzo Gozzoli e Filippo Lippi ebbero su di lui una certa influenza iniziale. Fu vittima della peste.