ROMPI IL SILENZIO. DONNE contro la violenza.

La violenza si manifesta sotto tanti aspetti e, oggi più che mai, ne siamo esposti.
La vediamo, la subiamo, la facciamo. Ma non ce ne accorgiamo. Urlare è violenza. Imporre il proprio pensiero è violenza. Non lasciare spazio a spiegazioni è violenza. Non ascoltare è violenza. Non riconoscere pensieri diversi dal proprio è violenza. La gelosia, la possessività sono violenza. Tutta la non libertà è violenza, ed è imparando a riconoscerla che impariamo a starci lontano o a denunciarla.
Ogni giorno siamo sottoposti a qualche tipo di più o meno sottile violenza, la mia paura è proprio quella che questa bestia nera diventi la normalità. E’ stando fermi che contribuiamo al suo aumento. E’ stando zitti che questa diventa un mostro imbattibile. E’ chiudendo gli occhi e facendo finta di non vedere che l’aiutiamo ad avanzare. Mi viene in mente una foto degli anni ’70 in bianco e nero che mi è capitata tra le mani tanto tempo fa e che poi ho sempre tenuto bene a mente. Ritraeva tre ragazze afroamericane con tra le mani un grande cartello che urlava “IF YOU ARE NEUTRAL IN SITUATIONS OF INJUSTICE YOU HAVE CHOSEN THE SIDE OF THE OPPRESSOR”.
Paola Gualano, presidentessa dell’Associazione, ci racconta Rompi il Silenzio e il grande, enorme, lavoro che tutte le donne coinvolte fanno ogni giorno per non essere dalla parte dell’oppressore.

(Fonte www.rompiilsilenzio.org)
Perché a tuo parere le donne non denunciano subito le aggressioni e le violenze subite, visto che le denuncie fatte in tempi rapidi potrebbero essere una soluzione?
La cosa più difficile per molte donne è proprio quella di rendersi conto che la situazione che stanno vivendo non è “normale”, che non è giusta. Molte fanno fatica a rendersi conto che il rapporto che stanno vivendo non è affettivo ma di violenza, confondono per qualche motivo la possessività con l’amore. Oltre a questa difficoltà entrano molto spesso in causa i figli. Quando di mezzo ci sono dei bambini la situazione e la decisione di denunciare le violenze subite diventano ancora più difficili. Molte donne non sono economicamente indipendenti, non hanno un lavoro, non hanno una casa, non hanno denaro. Tutto questo anche a causa del compagno che le limita. Succede spesso anche che la rete amicale sia inesistente, sempre per lo stesso motivo. Attorno a queste donne spesso c’è il deserto, non esiste contatto umano. Sapete, è un processo che parte da molto lontano. Dal momento in cui una donna capisce di non farcela più e inizia a fare il primo passo per uscire da una situazione difficile, passano circa 5/6 anni, oggi, e ne passavano 10 fino a poco tempo fa.
Quindi i tempi si sono dimezzati, grazie a cosa a tuo parere?
Perché oggi c’è una maggiore informazione a riguardo e più fiducia nei centri di assistenza. Le donne capiscono che quelle situazioni non sono sane. C’è più collaborazione e dialogo con le forze dell’ordine, per le quali c’è una considerazione diversa. Carabinieri e polizia hanno aumentato il numero di ispettrici e personale di sesso femminile, proprio per creare un ponte più solido e sensibile all’argomento.
Chi sono le operatrici all’interno del centro di assistenza?
Tenete conto che il centro si basa sul volontariato ma che le nostre operatrici fanno continui corsi di formazione seguiti da test molto selettivi. Tutte le operatrici hanno l’obbligo della formazione continua, i centri collaborano tra loro e il personale anche. Il rapporto che si instaura tra le operatrici e le donne accolte non è un rapporto donna-paziente, ma donna-donna e per noi questo è fondamentale. Per le donne assistite anche. Il rapporto che si instaura non è mediato dal denaro e l’atteggiamento dell’operatrice è un atteggiamento di ascolto prima di tutto.
Quali sono le figure presenti all’interno della struttura?
Attualmente 20 operatrici, 2 educatrici, 5 legali tra penali e civili e due psicologhe, tutte formate. Le donne, nella maggior parte dei casi, chiedono di parlare con le professioniste, convinte che il loro percorso di uscita dalla violenza si possa esaurire con un colloquio con la legale o la psicologa, ma il percorso è molto più lungo, prende in esame anni di violenze ed abusi: donna ed operatrice fanno un vero e proprio patto, decidono insieme i passi da fare per interrompere il ciclo della violenza e nessuna di noi obbliga mai la donna a fare qualcosa che lei non voglia, nemmeno la denuncia. E’ un processo, una scelta, che nasce dalla consapevolezza acquisita durante il percorso dalla donna stessa.
Abbiamo detto che le tempistiche, in moltissimi casi, giocano un ruolo importante e decisivo nei confronti della vittima, che spesso non si rende conto della linea sottile vita-morte che va a toccare; che consiglio ti senti di dare a riguardo?
Nessuno arriva mai per caso a toccare il punto estremo. Togliamoci dalla testa l’idea che l’atto finale sia un raptus. Prima del raptus c’è un intero mondo da cogliere, il problema è che molte donne sottovalutano i rischi, giustificano, perdonano e danno poca importanza agli avvertimenti. Il consiglio che mi sento di dare è quello di fidarsi e di affidarsi alle associazioni che si occupano di questi problemi, di parlarne, tanto per cominciare.
Da quanto tempo opera Rompi il silenzio Onlus?
E’ stata fondata ufficialmente nel 2005 mentre il centralino è stato aperto poco dopo, nel giugno del 2006. Per molto tempo siamo andate avanti dando supporto con il centralino e tramite appuntamenti, poi, nel 2011, è finalmente nata la prima casa di accoglienza che è diventatata un punto di riferimento per la Provincia di Rimini. Le soddisfazioni che abbiamo avuto e che continuiamo ad avere sono enormi, dal semplice aumento di dinunce, che non equivale ad un aumento di maltrattamenti ma ad una maggiore fiducia nei confronti di queste associazioni.
Ma tutta la forza che poi trasmettete alle donne voi da dove la attingete?
Sai, quando riesci a trasferire una donna con i propri figli in un altro comune, quando le forze dell’ordine – ma non solo – ti aiutano, quando quella donna dopo del tempo inizia a lavorare e a mantenere lei e la sua famiglia… Per noi queste sono enormi soddisfazioni!! Ma non ci fermiamo qui, noi peschiamo energia anche dalle situazioni di difficoltà. Nel momento in cui capita un’emergenza e tutte assieme riusciamo a capire, affrontare, risolvere il problema, ci sentiamo di aver vinto e piene di energia. Quello che si vede è solo la punta dell’iceberg.
Ultimamente sono successe delle cose terrificanti, che idea vi siete fatte riguardo il nostro livello di civiltà? Se così si può chiamare.
No, infatti non sono sicura che si possa chiamare civiltà. Siamo in un momento abbastanza buio a parer mio, non parlo solo della violenza sulle donne, ma della violenza in generale, sui migranti, sulle persone diverse da noi. E’ sufficente guardare come ci comportiamo tra di noi, per strada, nelle piazze… Il problema non è generazionale, è epocale e tocca la sfera culturale. Una modalità d’intervento molto importante riguarda l’istruzione. La prevenzione all’interno delle scuole è fondamentale. Siamo abituati a pensare che i casi di violenza appartengano ad altre culture, altre etnie. Non c’è nulla di più falso.
E c’è del movimento all’interno dell’istruzione?
In provincia si stanno mobilitando molto. Abbiamo iniziato anni fa con l’ausilio dei carabinieri entrando nei licei e nelle scuole superiori, poi siamo passate alle scuole medie, con Mare di Libri e altre attività. Cerchiamo di essere presenti un po’ da per tutto per creare consapevolezza. Vediamo che le cose funzionano, l’approccio che utilizziamo non è quello della lezione frontale perché sappiamo che l’attenzione a noi rivolta non sarebbe abbastanza. Utilizziamo un altro metodo, “i bigliettini”. Affrontiamo quello che i ragazzi e le ragazze ci suggeriscono attraverso questi, che sono anonimi ed eliminano la vergogna e l’imbarazzo. Funziona. In ogni caso noi siamo lì anche per mettere la pulce nell’orecchio.
Ultima domanda: qual è la storia che in tutti questi anni più ti è rimasta, alla quale ancora pensi?
La risposta è molto soggettiva, tutti abbiamo corde più o meno sensibili da toccare. Personalmente, ogni volta che mi fanno questa domanda, penso sempre alla storia di quella donna dell’est Europa che è stata segregata per 5 anni in casa dal compagno italiano. Cinque anni chiusa in casa, con le finestre sbarrate, con una figlia piccola. Un giorno il compagno esce e lei, che non ce la fa più a sostenere la situazione, prende la bimba e scappa. Arrivava dall’entroterra, si era messa in camminoperraggiungereilcentrodiaccoglienza, qui a Rimini. Una volta arrivata in città si è fermata a chiedere aiuto ma non le hanno dato attenzione, ha raggiunto poi il comando provinciale dei carabinieri che hanno chiamato noi. Questa donna, a piedi e con una bimba piccola, è arrivata con tutto quello che possedeva… Sapete in cosa consisteva? In 50 € nascosti in una scarpa e una tuta più grande della sua misura che le aveva regalato il compagno. Basta, questa era la dote sua e della figlia. E’ stata in protezione da noi per più di un anno, ha iniziato subito a cercare lavoro e, una volta trovato, la prima cosa che ha fatto, l’estate stessa, è stato pagare il centro estivo alla figlia. Non da molto, ha una casa sua e ci vive con la figlia. Questa è una storia che ancora oggi mi emoziona.
Lo dice emozionandosi per davvero e scusandosi.
Per noi non c’è cosa più bella di una persona che si emoziona.
Rompi il silenzio Onlus conta oggi 29 persone tra dipendenti e volontari, i progetti per il futuro sono tanti e la forza investita non si conta.
Ringraziamo queste persone dal cuore enorme e ci auguriamo che le cose vadano sempre meglio.